online exhibition

Pioggia Acida

Pier Luigi Berto

On View
2020-07-01

Il funambolo


Marco DI Capua

"La vera via passa su una corda, che non è tesa in alto, ma rasoterra. Sembra fatta più per far Inciampare che per essere percorsa”. (Franz Kafka, Quaderni in ottavo)

       Perché il movimento non è mica andare da qui a lì, troppo facile, e poi non si sta parlando di un'azione, ma di miglioramento, casomai, di un gesto puramente interiore, che forse potrebbe voler dire anche imparare a fare nulla, come nello Zen, o a cadere, con un tipico andamento a strappi, faticosissimo e poco produttivo: e questo, bene o male, lo stiamo imparando a fare tutti, tutto da soli. Lo ha fatto, mostrandolo che meglio proprio non si può, Pier Luigi Berto, con un volo stupendo e tetro, in un disegno che ha chiama- to semplicemente così: Caduta.
      Ma c'è soprattutto questa storia del rasoterra che trovo affascinante, perché va contromano e contropelo a tutto un '900 piuttosto megalomane nelle sue glorie e nelle sue catastrofi, e che mi fa venire subito in mente una cosa, anzi due, che naturalmente giro subito a Pier Luigi, giacché lui è l'origine e il fine di tutto ciò che ora mi tornerà in mente e che avrò voglia di dire: sono la rosa di Mondrian, e il susino di Brecht.
        Per nostra fortuna, c'è tutto un '900, maggiore nei suoi nomi, che si è anche rivolto a ciò che è minuscolo, fugace e leggero. Nella lista, tra l'altro più lunga di quanto non ci si aspetti, ci starebbero benissimo, per dire, alcuni piccoli fiori visti sul ciglio della strada da Pier Paolo Pasolini, il desiderio di instillare in noi simpatia per ciò che è piccolo e numeroso (la sabbia e perfino nugoli di zanzare e polveri), provato dal grande poeta russo losif Brodskij, e più indietro l'inno alla vita minima del mondo che, non senza un vivo ringraziamento alla Madonna, “balena dei cieli", cantò a squarciagola Federico Garcia Lorca.

       Ma letteralmente rasoterra era lo sguardo di Wols ("io sono un piccolissimo/ uomo libero") mentre scattava fotografie sul selciato bagnato in una notte di Parigi, e assolutamente inter- rato, ipogeo, il gesto di Paul Klee di sfilare rametti e pescetti e stelline dal buio ventre del mondo. Flashback: ora appare anche Odilon Redon, che scrive (senti questa Pier Luigi, che ti riguarda molto): "...tutto mi giunse proprio sotto la matita, sotto il carboncino, questa polvere volatile, impalpabile, fuggitiva al contatto della mano.. Questa materia qualunque, che non ha alcuna bellezza in sé, facilitava bene le mie ricerche del chiaroscuro e dell’invisibile".
         Insomma ce ne sarebbero un sacco, io però ne ho nominati davvero solo due, Mondrian e Brecht. Il primo, nel 1910, fece il disegno di una rosa. Una rosa senza colore, sen- za gambo, senza spine, solo una corolla manco del tutto sbocciata, fortificata, diresti, proprio nel non farlo, contornata da un gesto duro e cauto al tempo stesso, solitario, rinsaldata, affinché non si perdesse nello zero del foglio bianco, da qualche tratteggio intorno. Un'illuminazione? Dicono basti anche un niente, e meno di cosi di certo non può fare nulla, non può accadere nulla.

Il bravo Bertolt, invece, come si sa, scrisse quella poesia che piaceva molto a Benjamin, e ci ripenso salendo sulla stupenda linea B della modernità tedesca: "Che è un susino, appena lo credi/ perché susine non ne fa/ Eppure è un susino e lo vedi/ dalle foglie che ha". Una meraviglia. Sapete cosa c'è? Che i volti che Berto disegna o incide, questi suoi brevi lampi di chiaroveggenza gettati nel vuoto pescando sguardi e pensieri, queste figure percepite nel modo incerto e fuggevole con cui vediamo luci di stelle che, allontanandosi nello spazio, cercano di raggiungerci e non sai se esistano davvero oppure no, sono come le polveri di Redon e di Brodskij, come i poveri fiorucci di campo di Pasolini, che sbocciano nel nulla, come i fantastici bastimenti di Wols, come quella rosa e quel susino: foglie, fogli... Il bello è che tutto ciò io lo trovo assolutamente attuale e necessario. Come un antidoto? Già. Mi spiego.

Ai visionari, ai pittori dell'immaginario più di una volta si diedero le ore contate. Sembrava impossibile oltreché criminale che durante stagioni e stagioni dominate dall'organizzazione di massa della cultura e dell'avanguardia, con parole chiave circa la forma, il politico e il sociale, qualche matto continuasse a operare frugando avrebbe detto Cristina Campo - nell'ombra. Né andò meglio in seguito, in tempi di establishment trasgressivo, tra le installazioni dell'obbligo e le performance dell'orrido. I gesti redoniani di chiudere gli occhi e di fare silenzio, l'indice sulle labbra, un'intera età li considera fuorilegge.

(Eppure quei visionari e decadenti, stranissimi uccelli che vedono ciò che noi non pos- siamo, non se ne volarono via, come per una migrazione senza ritorno, o quasi che lo specchio d'acqua che li attirava fosse ormai in secca. Restarono, restano i, e uno per tut- ti, lo voglio citare, nell'acqua ci morì perfino, Jean-Pierre Velly, pittore e disegnatore di fiori e orizzonti opalescenti).

Pier Luigi Berto può inoltre vantare almeno un altro paio di virtù: disegna figurativo, disegna leggero. Sui suoi piccoli fogli è come se la figura ristabilisse un proprio diritto primario ed essenziale e neutro ad esistere  -  cio’ che appare  e si nasconde, con lievi mani, la figura ristabilisse un proprio diritto ciò che appare e si nasconde, la figura prima del nome che se ne dà  facendosi e disfacendosi quel tanto che occorre essere 1 ma del nome che se ne dà percepita in modo caustico, spesso ironico, sempre antiretorico, come qualcosa di perduto, o che si sta perdendo, o che è ancora di là da venire. Figurativo senza la missione di restaurare alcunché (per carità, abbiamo già dato!) ma affidandosi a sussurri d'immagine, bisbigli di volti e soffi, non so dirlo che così, all'orecchio dell’occhio…

      Massimo dell'onta? Ma è proprio questo, come càpita, che diventa oggi necessario. Afflitti da horror pieni, come lo chiama Gillo Dorfles, resi catatonici dall'overdose di stimoli e ambizioni e mistificazioni siamo assetati di camere di decompressione e purificazione dello sguardo e della mente, desiderosi un'arte non monumentalmente trendy o vacuamente museale, ma più intimamente fantastica ed esistenzialmente narrativa, dove il gesto del disegnare (bisognerebbe stendere una storia del segno come strumento sottile contro la dittatura della pennellessa) assomigli a quello dello scrivere poeticamente: un rigo appena ma perfetto, toccare poche corde, e quelle farle risuonare oscuramente.
       Rivendichiamo dunque l'importanza di ciò che mostra spirito dil concentrazione, capacità di stare nel raggio dei cerchi che farebbe un sasso gettato in acqua. Tracce, orme, braci, scavi interiori, esplorazioni dell'anima, secessioni del corpo, microvivisezioni di ricordi, capillari dell'ispirazione, nervi della memoria, tendini dei sogni.. Appuntare, costellare, accennare, alludere, avvolgere... Arte come stimolatrice di allucinazioni, endorfina per le visioni, regime notturno... Anche solo per chiedersi: qualche tenace rimasuglio di romanticismo è ancora, intensamente, qui?

       Milan Kundera ha di recente scritto in favore delle piccole nazioni, e dunque, capite l'antifona per favore: "Una grande nazione vede la propria esistenza e la propria importanza internazionale garantite automaticamente dal semplice numero dei suoi abitanti. Non si tormenta interrogandosi sul motivo e sulla legittimità della propria esitenza: c'è e continua ad esserci con un'ovvietà schiacciante. Invece una piccola nazione, se ha una qualche importanza nel mondo, deve ricrearla ogni giorno. In essa, la creazione di valori è legata alla questione dell'esistenza, e questo probabilmente è il motivo piccole nazioni è molto più intensa che nelle grandi".

       Berto, piccola nazione, disegna. Qualsiasi cosa lui faccia, la radice, il gesto, è quello li. Credo sia passato il tempo in cui era possibile associare a certi suoi cromaticissimi quadri una specie di neoespressionismo. Sono convinto che Pier Luigi abbia afferrato il bandolo della propria matassa e si sia accorto di avere in mano, o sotto i piedi di funambolo, un solo filo nero. Che sia inchiostro, china, biro, matita. E questo gli basta, con questo può fare tutto. “Colui che disegna cui la creazione nelle  ha scritto in modo impareggiabile Jean Clair  nutre il progetto di abolire la distanza tra se stesso e la realtà. (...) Posto davanti al mondo come se questo avesse ancora qualcosa da dirgli e liberato dallo scetticismo dei suoi contemporanei, egli è di nuovo l'essere nudo e primitivo all'alba della civiltà. Tutto comincia con il disegno, e con esso tutto può ricominciare. (...) il disegno improvvisa i propri mezzi d'espressione secondo i bisogni, come colui che, approdato ad una riva straniera, immagina i segni grazie ai quali si farà capire. Il disegno appartiene sempre al- l'inizio di un mondo, tocca sempre terre vergini. Disegno è l'impronta del piede di Venerdì sulla sabbia della spiaggia, nella quale Robinson riconosce che non è solo". Il disegno prima radice e prima di tutto? ne era convinto anche il massimo artista italiano del secondo '900, Gino De Dominicis.

       Sfoglio i titoli e le immagini, Meditazione, Bestiario romano, Cicatrice (bellissimo), Presenze, Misuratori d'angoscia.. Gli occhi... Le mani.. (l'identità è disseminata, è ovunque, forse non esiste neppure) e poi, con l'istinto del gioco, della combinazione bizzarra e ironica di ciò che vedi e di ciò che leggi e pronunci, Albero in gamba, Dialogo complicato, Profilo con problemi, e infine la sfilza delle Metamorfosi e L'insetto (grazie ancora di tutto nostro caro K.), e i ritratti (stupendo quello di Bacon) e gli autoritratti, che in fondo sarebbero brevi ricerche della figura perduta, e così mi vengono in mente alcune cose. Che sono le seguentí.

       Il tempo è infinito, lo spazio mutevole, e queste che ho davanti, per poco che si fermino, sono immagini in transito, stanno passando (dal fondo verso la superficie, come un venire a galla, oppure proprio puntando verso i bordi del foglio, come per scapparsene). si stanno cancellando, sono battiti, pulsazioni di figure. Salvaguardano un altro loro diritto: quello di moltiplicarsi, di variare, e anche di nascondersi. Alcune volte i disegni di Berto mi ricordano quelli di Dali (oltre a farmi sentire lo strano vento che spira da quel pun- to cardinale generatore di turbolenze che è Savinio), e soprattutto la sua convinzione che una figura ne celi molte altre, in un gioco infinito di rispecchiamenti e innumerevoli variazioni e invenzioni, Non solo Arcimboldo, quindi? L'artista che per Roland Barthes sfruttava le curiosità della lingua, combinando e sviando segni? Dali stesso aveva imparato da certe cavallette, viste da bambino durante noiosissime estati trascorse nella campagna catalana, che una specie (una forma) può mimetizzarsi, assumere le sembianze di un'altra, se ha cara la vita.

        Nascono aggregazioni misteriose di macchie e grovigli apparentemente fragili, sorti dal nulla, e dunque sempre in un certo rapporto col vuoto dal quale provengono. Anzi diresti che il reticolo dei segni imprigioni il vuoto e gli dia senso. Devono attraversare delle zone neutre, di deserto vero, di bianco che, come un acido corrode. La vaghezza, il flusso di ricordi e sensazioni svela il suo tratto ostinatamente strutturale, di opposizioni: il nulla e un volto, il contorno e il campo, ciò che vedi e ciò che intuisci soltanto... La matita o la penna ramazzano e affastellano le immagini, le tessono, le filano per liberare il foglio, sprigionandone l'energia, non per riempirlo. Detto così, sembra che tutto sia voluto, e invece è evidente come l'andamento del segno suggerisca le immagini e le apparizioni: il gioco come al solito è tra raziocinio e illuminazione (basta un niente, l'ho già detto, il rumore secco di un legno, di un segno, che si spezza), controllo e senso di abbandono. Mi domando solo una cosa: quand'è che Berto dice "basta così, il disegno è finito"? Quando tutto è chiaro o debitamente confuso? Quando ha la sensazione che chi è arrivato, là sul foglio, resti almeno per un po' e non vada via? D'altra parte ho visto pochi lavori aperti come questi. Dunque, quand'è il caso di piantarli li un occhio e una mano? Risposta: la dà ancora B.B. : "l signor Keuner una volta disse: il pensatore non adopera un lume di troppo, un pane di troppo, un pensiero di troppo". Suppongo che ciò valga anche per i funamboli.

Pier Luigi Berto

Pier Luigi Berto nasce a Rovigo nel 1956 e approda da adolescente alla scuola della scultrice russa Lidia Trenin Franchetti, allieva di Charles Despiau a Parigi, presso il suo atelier di Villa Strohl-Fern a Roma. Comincia a frequentare anche, sempre a Villa Strohl-Fern, lo studio di Carlo Levi, dove conosce e si appassiona al suo mondo pittorico e ai suoi temi. Diversi amici del fratello maggiore Gian Paolo Berto (pittore e incisore), sono spesso ospiti a casa e, sin da bambino, ha l’occasione di conoscere personaggi come Marino Mazzacurati, Tono Zancanaro, Corrado Cagli, Renzo Vespignani, Ugo Attardi. Berenice, giornalista di Paese Sera e critico d’arte, lo segue nei suoi inizi e lo consiglia parlandogli spesso dei maggiori pittori e scrittori italiani suoi cari amici. E’ lei che stimolerà la sua emancipazione culturale facendogli scoprire la letteratura e la poesia contemporanee che saranno la fonte d’ispirazione principale per il suo lavoro. Per un breve ma intenso periodo alla fine degli anni sessanta dipinge accanto a Riccardo Tommasi Ferroni, presso lo studio di Via dei Riari a Roma, dove mette a punto le tecniche antiche come la punta d’argento e la preparazione della carta, che risulteranno importanti per confermargli l’orientamento verso una produzione più significativamente grafica. Contemporaneamente si appassiona al lavoro di Carlo Cattaneo, dal quale apprenderà il gusto per il disegno, prediligendo la carta intelata come supporto ideale per il suo lavoro.

Learn More