Pratiche di Innocenza Marzia Capannolo Come restituire allesperienza del dolore uniconografia che la renda, prima ancora che accettabile, adeguatamente rappresentata? La teologia delloggi, quella che elude le riserve di memoria e si sottrae

Laura Fortin

Laura Fortin

Pratiche di Innocenza

Marzia Capannolo


Come restituire all’esperienza del dolore un’iconografia che la renda, prima ancora che accettabile, adeguatamente
rappresentata? La teologia dell’oggi, quella che elude le riserve di memoria e si sottrae alle incertezze del futuro, statuisce la canonizzazione del massimo rendimento psicofisico a carico dell’individuo, respingendo la caduta, le ferite, la sofferenza, come elementi che inquinano la percezione di noi stessi nell’altro. È in fondo come se almeno la metà del nostro esistere, quella che sconta il peso dell’indecenza, venisse cancellata dalla necessità di rendicontare all’occhio della società solamente ciò che è ammesso in termini di efficienza e capacità performativa, confinando l’altra metà in un covile di colpe irraccontabili.
Viaggiamo attraverso iper-informazioni grafiche che parametrano il nostro modo di stare al mondo: l’imperfezione va corretta, il disturbo va curato, l’ostacolo va rimosso: qual è allora lo spazio del dolore? Quali sono le parole per la sofferenza?
All’assenza di spazio e alla carenza di parole, Laura Fortin risponde con la pratica dell’Arte.
Pittrice autodidatta nata a Padova che vive e lavora a Torino da sei anni, Fortin conduce una ricerca sul concetto e sull’estetica del femminile, in relazione sia con il corpo che con la psiche. Lo sguardo dell’Artista non concede sconti e esibisce ciò che fisicamente e emotivamente si tende a occultare poiché non rispondente ai canoni richiesti dalla nostra società. Le donne dipinte da Fortin sono interpreti di nevrosi risolte nell’estraneità di spazi angusti e solitari dove con misurato distacco viene messo in scena un protagonismo dell’infelicità rappresentato da oggetti e soggetti solitamente rimossi dall’esercizio quotidiano del giudizio, riaffermandone così l’esistenza. Le sue tele non scagliano invettive contro la censura, né operano alcuna pretesa di riscatto; piuttosto riabilitano la ferita e la sconfitta come organismi vitali capaci di agire trasformazioni viscerali che deturpano, aggrediscono e alterano corpi originariamente femminili, tramutandoli in archetipi del tutto: come sudari che accolgono il dolore preservando le impronte della vita, sia essa furente e accesa di rossi gettati sulla tela come sorde imprecazioni, che lacera e sfinita di verdi e azzurri pallidi, rivelatori di assenze e smarrimenti.
La morale comune interviene sugli inestetismi dell’esistere con abili espedienti di cosmetica volti a nascondere qualunque cedimento; nelle sue opere Laura Fortin rimuove invece ogni mistificazione per rendere all’osservatore l’immagine più pura di quanto accade quando si ha il coraggio di vedere. L’Artista porta al cospetto dello sguardo una pittura lontana da accademismi studiati ma densa di riferimenti alla letteratura e alla cultura visiva attuale. In ogni opera si avvera l'epifania disincantata di intime inquietudini che segnano ogni centimetro di tela con una scelta finissima di timbri, quasi mai esasperati e in perfetto equilibrio con la forza- più raramente la violenza- dei soggetti
rappresentati. La pittura di Laura Fortin, pur insistendo sul registro dell’errore, non cede mai al compiacimento e aspira alla manifestazione visiva del turbamento emozionale che consuma i soggetti ritratti. Essi stessi si rivelano spettatori del nostro imbarazzo: lo colgono, lo accettano ma non pretendono di mitigarlo; la potenza assertiva dei dipinti di Laura Fortin si palesa nel disinteresse verso ogni tentativo di pacificazione, comprimendo l’osservatore entro uno spazio ridottissimo da cui è impossibile schivare il soggetto. Poche linee oblique tracciano lo schema di scatole spaziali dipinte di vuoto, ambienti sospesi tra fatto e visione in cui si consuma la scena, o meglio, in cui il soggetto esce dalla scena e come in Ego, Truth Cabin e I want more si frappone fra noi e la tela, mentre in essa tutto accade. Quando i soggetti primeggiano sulla superficie del dipinto la pittura dell’Artista si fa pulsante: contiene e trasmette, palpita di accordi accesi e compressioni formali così che al dolore risponda l’amore, e all’amore il dolore. La grande e recentissima tela Muta mai, una pala eretta sugli altari della cronaca più attuale, rappresenta un’azione-manifesto che, attraverso l’esibizione centrata e in primo piano di una donna braccata ai lati da due presenze asfissianti, una sorta di Madonna affiancata da demoni oppressori, denuncia il peso dello sguardo non richiesto, insidioso, molesto che aggredisce il corpo femminile svestendolo della grazia che gli è connaturata, offendendolo con l’ingiuria della mortificazione. Anche l’occhio dell’osservatore agisce su quel corpo, ma mosso dalla più umana pìetas lo ri-vela accogliendolo nella sua pura e incondizionata innocenza. Senza alcuna colpa è anche la protagonista dell’opera Pacific Palisades: trafitta e attraversata dalla sua stessa vita, diviene lei medesima radice di un piccolo gambo d’erba in fiore. La tela mutua il titolo dall’ultimo libro di Dario Voltolini e anch’essa racconta un viaggio alla ricerca di quel luogo esotico e segreto dove si nasce di continuo. I colori accordati su tenui contrasti e il tratto sfilato della vegetazione tessono la trama del dipinto su cui si staglia un corpo smisurato che si mostra da dietro, dalla parte nascosta allo sguardo, quella che accoglie la ferita da cui fiorisce la natura.
Laura Fortin dipinge mostrando quelle ombre del vissuto a cui è difficile attribuire un nome, ma che, attraverso un disegno asciutto che avanza silenzioso incontrando accordi pallidi alternati a contrasti iridescenti, si mostrano senza alcuna remora nella loro imperfezione, incorrotte da qualunque ipocrisia. Si viene al mondo, ma per esistere è necessario che ci venga assegnato un nome, un battesimo che attesti noi stessi in quanto identità. Alla fragilità, allo smarrimento, non basta dare un nome per essere ammessi nella vita. E allora occorre l’Arte, la poesia, la scrittura, e la pittura di Laura Fortin, per comprendere nel dolore la radice di una rinascita continua.

 

Ada, acrilico su tela, 60x80, 2020

Aris e Nanda, acrilico su tela, 60x80, 2020

Broken Home, acrilico su tela, 100x100, 2019

La noia, acrilico su tela, 100x100, 2019

La gorda, olio su cartone telato, 40x60, 2019

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